Censimento delle architetture italiane dal 1945 ad oggi

QUARTIERE INA-CASA TIBURTINO

Scheda Opera

  • Planimetria generale
  • Pianta piano tipo edificio di Quaroni e Fiorentino
  • Vista dall'alto
  • Vista esterna case a schiera di Ridolfi
  • Comune: Roma
  • Località:
  • Denominazione: QUARTIERE INA-CASA TIBURTINO
  • Indirizzo: Via Tiburtina km 7, via Diego Angeli, via dei Crispolti, via Luigi Lucatelli
  • Data: 1949 - 1956
  • Tipologia: Edilizia residenziale pubblica
  • Autori principali: Ludovico Quaroni, Mario Ridolfi
Descrizione

Costruito fra il 1949 e il 1956, il quartiere Tiburtino si caratterizza, secondo Tafuri, come il manifesto del Neorealismo italiano in architettura e dell’ideologia INA-Casa, essendone uno dei primi esempi: si inserisce all'interno della ricerca architettonica degli anni Cinquanta sulla ricerca formale e funzionale dei nuovi interventi di edilizia pubblica, verso la definizione di un vero e proprio brano di città, avente struttura di quartiere.
La ricerca neorealista in campo architettonico, a partire da una prima reazione al Movimento Moderno, è incentrata su una nuova razionalità del costruire che, nel tentativo di recuperare un discorso interrotto con la storia, guarda al passato per riscoprire le tecniche costruttive artigianali e ricreare le condizioni, l’ambiente, lo spazio architettonico, il modo di abitare dell’equilibrio della vita di borgo. Il progetto lascia quindi ben poco alle speranze di architetti, politici e intellettuali progressisti che intendono fare dell’intervento pubblico luogo necessario del controllo della crescita urbana e laboratorio della ricerca di un habitat evoluto e rispettabile.
Situato al km 7 di via Tiburtina, lontano dalla città costruita e al di fuori delle previsioni di Piano, il progetto del quartiere ha avuto inizio nel 1949, quando prende ufficialmente il via il programma edilizio dell'INA-Casa secondo il piano Fanfani (1948), che prevede l’edificazione di alloggi a basso costo sovvenzionati dallo Stato, finalizzata soprattutto al riequilibrio del mercato economico e dell’occupazione di un gran numero di persone nell’immediato dopoguerra.
Questo insediamento è uno dei complessi più interessanti tra i tanti progettati secondo le indicazioni di questo ente. Vero laboratorio per il gruppo di diverse generazioni di architetti coinvolti nel progetto, il quartiere raccoglie gran parte delle ricerche sull'abitazione svolte da Mario Ridolfi presso il Centro nazionale delle Ricerche e esemplifica la proposta culturale veicolata dalla pubblicazione del Manuale dell'architetto (Usis-Cnr, 1946).
Anche i due fascicoli pubblicati dall'INA-Casa, che definiscono le principali linee guida e le caratteristiche generali necessarie per la progettazione e realizzazione degli insediamenti, poi declinate nei contesti locali, sono sintomatici dell’insofferenza di alcuni architetti come Zevi, per le forme dell’ortodossia razionalista, in Italia troppo spesso fascista, e della contrapposizione di altri architetti, ancora legati a queste ideologie.
All’interno del dibattito che si sviluppa in quegli anni, il quartiere viene progettato da un gruppo di membri dell’APAO (l’Associazione per l’Architettura Organica fondata da Zevi) formato per lo più da giovani laureati (Carlo Aymonino, Carlo Chiarini, Mario Fiorentino, Federico Gorio, Maurizio Lanza, Sergio Lenci, Piero Maria Lugli, Carlo Melograni, Gian Carlo Menichetti e Michele Valori), guidati da Ridolfi, per la parte architettonica, e da Quaroni, per la parte urbanistica. Il gruppo ritiene di dover partecipare al piano di ricostruzione INA-Casa superando, così, l’opposizione di Bruno Zevi che esprime allo stesso tempo ammirazione e disapprovazione per questa serie di interventi.
Nell'ambito romano, reduce dal ruolo di centro politico e ideologico del regime, privo di una reale esperienza del Movimento Moderno, prendono forma le aspirazioni ad una revisione della cultura architettonica in senso anti-razionalista. Nel complesso delle realizzazioni la rinuncia ad ogni valenza progressista produce un sobrio realismo architettonico e costruttivo. Nelle soluzioni dei professionisti romani il virtuosismo di Ridolfi, pur epurato da alcuni accenti manieristici e letterari, si sedimenta in un linguaggio semplice e corrente.
Esclusa ogni innovazione poi, si evidenzia il dispositivo costruttivo tipico del Modernismo italiano: costruzione mista in muratura e cemento armato, definitivamente assimilata nel periodo dell’autarchia nel patrimonio genetico dell’architettura italiana del Novecento. La sperimentazione architettonica sul tema del quartiere si esprime esclusivamente nei progetti INA-Casa attraverso invenzioni formali planimetriche e tipologiche. Il tentativo promosso dal Piano di far convivere la necessità dell’abitare con quella del costruire si è modellato nelle sue diverse applicazioni territoriali, senza costituirsi nei decenni successivi come paradigma della trasformazione della città.
L’iter progettuale degli architetti per il Tiburtino si sviluppa ricercando il naturale equilibrio nella comunità e nelle forme architettoniche del villaggio: l’idea è quella di ricreare un quartiere che sia un vero e proprio Villaggio del Tiburtino, che risponda in maniera forte al degrado ed allo squallore edilizio delle vicine borgate, rispettando e valorizzando le caratteristiche morfologiche del sito.
Pensato senza alcun inquadramento urbanistico, il quartiere, per sfuggire al “degrado suburbano”, accetta il suo recinto e si fa paese, privilegiando la scala umana ed il valore dello spazio di relazione, proposti dalle realizzazioni scandinave di quegli anni, ma misurate nell'articolazione dei corpi sull'architettura “minore” dei borghi medievali dell’alto Lazio.
Questo progetto diventa quindi il terreno di confronto privilegiato del dibattito architettonico, in cui i progettisti tentano di coniugare una migliore qualità dell’abitare all'impianto urbano nella ricostruzione del Paese come ricostruzione della casa. E’ infatti una delle prime occasioni del dopoguerra di sperimentazione sulla casa popolare e sul pensiero della forma e della dimensione della residenza pubblica: indica una strategia per la costruzione della periferia come “paese” lontano dalla città, richiamante valori urbani, sebbene separato dal tessuto compatto.
Per quanto riguarda la sistemazione planimetrica, gli edifici sembrano snodarsi, pur con qualche incertezza nelle sue matrici culturali, nello spazio senza seguire nessuno schema preconcetto, articolandosi invece lungo gli assi di penetrazione, in modo da ricreare la contiguità spaziale della città preindustriale e realizzare con la loro continuità slarghi, rientranze, convessità, che diventano familiari all'abitante. Gli architetti compongono gli spazi adatti all'uso quotidiano, secondo un sistema complesso di relazioni e gerarchie.
Più che di fronte ad un progetto urbanistico fatto di grandi tracciati, di lunghe e piacevoli promenade alberate, ci si trova circondati da una anomala suggestione fatta da case umili, per il popolo, che hanno un’unica pretesa: fornire degli alloggi. Le abitazioni sono in grado di sfruttare lo spazio disponibile per creare dei margini di consistente intesa con il contesto antropologico. I singoli edifici, pur essendo tasselli architettonici compiuti all'interno del complesso, non sono progettati come fatto in sé concluso, ma cercano di abbracciare gli altri soggetti della composizione urbana, fondendosi gli uni agli altri.
A piccoli blocchi fluenti intorno a spazi liberi precisi ed arguti, si succedono le differenti case, alcune delle quali sfruttano gli esistenti dislivelli altimetrici senza apparente violenza. Si tratta di case disposte rispettando l’orientamento nord-sud e est-ovest, secondo una logica che spazia tra l’astratto e l’informale, che manifestano l’esigenza di esprimere la società, nata dalla crisi dell’eredità razionalista, a cui in modo manifesto si oppongono realizzando una composizione di edifici di differente valore architettonico.
Ogni idea di ritmo planimetrico viene abbandonata e, nella varietà di fronti e nella successione di prospettive sempre varie, alla strada è affidato appunto il valore di regola unificante dei diversi edifici e il compito di disegnare spazi suggestivi, intimisti, definiti da fronti edilizi dove il lessico popolare, reinterpretato dai puntuali disegni di dettaglio di Ridolfi (dai particolari costruttivi alla scelta dei materiali, alla notevole cura artigianale della realizzazione), è assunto come linguaggio. Questo richiamo architettonico vernacolare, fatto di materiali poveri, è la chiave espressiva scelta per ricreare un’atmosfera domestica, da borgo spontaneo, del tutto lontana sia dalle esperienze europee contemporanee che dall'architettura fascista precedente.
Il ruolo della strada come spazio pubblico è ancora più marcato grazie anche alla giustapposizione degli spazi verdi raccolti, quali connettori delle unità abitative e quinte sceniche dell’agglomerato. Lo spazio verde acquista infatti una certa valenza: da ruolo residuale diventa un elemento che delimita senza dividere lo spazio, anzi lo rende maggiormente coeso, assumendo il valore dei giardini e in alcuni casi degli orti urbani della città antica, dalla quale riprende persino la delimitazione con muretti bassi in blocchi di tufo e elementi in cotto.
Tuttavia, si denota la predominanza del verde ad uso privato rispetto a quello pubblico, ad oggi non attrezzato e localizzato in maniera non uniforme rispetto a tutte le unità residenziali. Gli slarghi, le piazze, le vie carrabili, costituiscono gli spazi a scala di quartiere; i percorsi, gli orti, i ballatoi in quota, i passaggi coperti, le piazzole con sedute, sono gli spazi del vicinato. Ampi o minuti graticci, realizzati con elementi di laterizio, che interrompono le pareti intonacate, muri di recinzione in blocchi di tufo ed elementi laterizi, combinati in insolite geometrie, con copertine di embrici o di lastre di travertino, pensiline, tetti spioventi tradizionali in coppi alla romana, ballatoi, balconi in ferro battuto con ringhiere e cancelli dal disegno complesso sono tutti elementi dell’apparato scenografico che caratterizza il quartiere.
I colori degli esterni degli edifici, oggi in parte alterati, erano basati su due o tre gradazioni di “terre romane”. Gli infissi delle abitazioni sono in abete con persiane alla romana, le ringhiere dei balconi e delle scale in ferro piatto e profilati normali. Le pareti delle scale sono foderate di mattoni, per assicurarne la maggior durata; le recinzioni esterne sono in tufo e mattoni a faccia vista, con copertine in travertino o in cemento. La pavimentazione stradale è in asfalto, mentre gli spazi interni sono misti, in cubetti di selce o lastre di travertino.
Il quartiere occupa una superficie totale di 8,8 ettari, con 771 alloggi per 4000 abitanti. Il progetto edilizio rinuncia alla scelta di un unico tipo edilizio. Le tipologie edilizie scelte per il progetto sono essenzialmente tre: case a torre di 7-8 piani, con 2, 3, 4 alloggi per scala, (progettate da Ridolfi); case in linea a 3-5 piani dette “case collettive” (progettate da Ridolfi, Fiorentino, Quaroni, Lugli, Valori, Melograni, Gorio, Aymonino, Chiarini, Lenci, Lanza e Menichetti) e case a schiera a 2-3 piani, che in alcuni casi sono raggiungibili da scale esterne e distribuiti da un ballatoio (progettate da Ridolfi). Questi edifici si prestano a molteplici variazioni, che rendono più complessa la loro tipizzazione in categorie precise. In realtà l’elemento di base è l’alloggio aggregato in linea con alcune interpolazioni e varianti. Vi sono poi quattro edifici commerciali realizzati da Ridolfi, collocati omogeneamente nell'agglomerato.
Il sistema costruttivo portante dei vari edifici è composto da un’equilibrata combinazione di elementi murari e di elementi in cemento armato, tutti realizzati prevalentemente in opera. Per quanto riguarda il ruolo strutturale degli elementi murari e degli elementi in cemento armato occorre distinguere tra case basse e case alte. Negli edifici di 2 o 3 piani la funzione portante è solitamente affidata a pareti di mattoni o blocchi lapidei realizzati in modo tradizionale, al cui controventamento contribuiscono in maniera innovativa i solai laterocementizi, con la conseguente possibilità di alleggerire le pareti non portanti. Questo modello costruttivo tradizionale è molto ben determinato all'epoca del Piano: delineato con sufficiente precisione nei suggerimenti emessi a più riprese dalla Gestione INA-Casa, definito compiutamente nel capitolato generale e più dettagliatamente nei capitolai speciali approntati dalle stazioni appaltanti, viene infine puntualmente applicato nelle realizzazioni.
Il sistema a muratura continua in blocchi regolari di tufo con ricorsi in mattoni, in cui il muro di spina condiziona la distribuzione dell’alloggio, determina una sequenza di stanze racchiuse nella scatola muraria con un piccolo sistema di disimpegni. La variazione tra alloggi con soggiorno e cucina su fronti opposti o sullo stesso fronte non porta a sostanziali differenze nell'organizzazione spaziale. Inoltre mutamenti dello spessore del corpo di fabbrica nello stesso edificio e la possibilità di aprire delle finestre su tre lati, a seguito di scarti e rotazioni, creano una serie di varianti dell’alloggio che generano indecisioni tipologiche più che variazioni. In generale l’andamento dell’aggregazione è definito da linee spezzate e articolato da slittamenti e rotazioni dei corpi di fabbrica, in cui i volumi delle scale rappresentano i fulcri.
Al centro della composizione, nell'isolato tra Via Tiburtina e Via dei Crispolti, vi è l’elemento a doppio T di Quaroni e Fiorentino, che Aymonino indica come “quello con maggiore coerenza nel passaggio di scala”. Il lungo corpo snodato è costituito dall'assemblaggio di più corpi edilizi aggregati in linea alti 4 piani, slittati leggermente o ruotati vistosamente in modo irregolare, e forma un insieme che chiude il lato della piazza interna dove si affacciano i soggiorni. I punti di cerniera sono risolti con scale triangolari che smistano gli alloggi sfalsati in altezza.
L’attenzione dei progettisti è volta principalmente allo studio dell’impaginazione dei fronti edilizi in modo da riprodurre quella vitalità e spontaneità da opporre alle rigide geometrie del funzionalismo. La ricerca di variazioni è continua tramite l’inserimento di balconi, non sempre coerenti con la distribuzione dell’alloggio, e di logge di volta in volta esagonali, rettangolari o di altra foggia, che creano effetti volumetrici e chiaroscurali diversificati, mentre connettono corpi di fabbrica distinti. In questo edificio non manca inoltre l’interpolazione di alloggi duplex, accessibili da una breve rampa esterna al piano terra e da un breve ballatoio al terzo piano, connesso al vicino vano scala.
Dall'evocazione di un ideale borgo si distacca l’edificio di Quaroni su Via dei Crispolti. L’edificio, di 3 piani più piano terra con 4 alloggi per piano distribuiti a ballatoio, ha il prospetto su strada assonante con il resto del quartiere, con balconi e logge diversificate distinte da un fondo intonacato, ed uno interno che prefigura una delle tante palazzine romane, con logge allungate ed accesso ad androne adeguati alle aspettative di decoro e riconoscibilità di una medio borghesia. Si tratta di una scelta volutamente ambigua che sembra cogliere l’irripetibilità dell’esperienza del quartiere Tiburtino. La studiata casualità delle soluzioni accentua il carattere spontaneo; i dettagli di recinzioni, cancelli, ingressi, sono “un tentativo” di prolungare lo spazio domestico sin nella strada.
Lungo il fronte di Via Tiburtina, Ridolfi realizza degli edifici in cui gli alloggi al primo livello sono in continuità (case a schiera) e sono accessibili sia dal corpo scala, sia da piccoli giardini privati sul fronte strada, mentre il vano scala, che serve gli alloggi dei piani superiori aggregati in linea, è raggiungibile al secondo livello da scale esterne a due rampe. Si crea così una successione di brevi rampe di scale esterne al filo dell’edificio.
Allineate lungo Via Luigi Cesena trovano posto le case collettive progettate da Michele Valori a 5 piani: queste presentano una disposizione articolata dei blocchi che permette la varietà dei punti di vista e la creazione di spazi pubblici, a piccola scala, capaci di suggerire la vitalità e la spontaneità del villaggio, uno degli obiettivi che il gruppo di Quaroni e Ridolfi si era prefissato.
Lungo Via Diego Angeli e Via Luigi Cesana vi sono delle case a ballatoio, realizzate da Ridolfi, che costituiscono la vera icona del Neorealismo architettonico: semplicemente indicate come schiere a 3 piani sovrapposti, con un alloggio per piano, presentano in realtà una tipologia composta. Gli alloggi al piano terra aggregati a schiera prendono luce da un patio. Gli alloggi al secondo piano sono distribuiti da un ballatoio, una sorta di strada sopraelevata, mentre quelli del terzo livello sono accessibili dal ballatoio con scale individuali.
Gli edifici del settore ovest (via Diego Angeli) e del settore est (via Luigi Cesana) differiscono per l’adeguamento alle curve di livello del suolo più che per variazioni distributive degli alloggi. I primi si trovano su un terreno pianeggiante, i secondi su un terreno acclive, il cui andamento è assecondato da leggeri sfalsamenti degli alloggi, che tanto hanno contribuito alla codificazione dell’immagine evocativa di un paese. Questo differente posizionamento sul terreno mette in evidenza un altro aspetto: in via Diego Angeli i patii che ritagliano il ballatoio permettono un ingresso più riservato ai piani.
La stessa soluzione, proposta su via Cesena rende le abitazioni e il ballatoio elemento di continuità con la strada, spazio di gioco dei bambini, abitazioni più pubbliche che si adattano ad utilizzi alternativi arricchendo il contorno. Gli edifici di Ridolfi, sommessi e riservati nella loro dignità offrono al pari di un borgo di tempi lontani la possibilità di essere vissuti come quartiere, caratteristica che non si può attribuire ai limitrofi isolati. Anche questi edifici sono realizzati in muratura di tufo e ricorsi di mattoni, sempre intonacati esternamente, e contribuiscono a creare delle serrate maglie chiuse.
Le torri, alte 7 piani e posizionate ai margini del quartiere, costituiscono il perno ideale della planimetria fatta per il resto da case più basse, concentrando un alto numero di residenze in un unico edificio, e rappresentano un elemento di discontinuità ed eterogeneità proprie dell’impianto del quartiere. Inoltre ha più possibilità di affaccio panoramico e buon orientamento per tutti gli appartamenti: nello specifico le torri di Ridolfi hanno 3 alloggi per piano distribuiti da una scala, aggregati secondo una rotazione di 120°. Questi edifici sono realizzati con struttura in cemento armato e tamponatura in forati intonacati esteriormente.
Il quartiere è stato mal realizzato dalle imprese di costruzione. Il disegno della grande piazza centrale, localizzata in via Arbib, era stato immaginato con l’intento di definire un importante spazio pubblico all'interno dell’insediamento. Non è stata infatti rispettata la volontà dei progettisti di distinguere lo spazio di attraversamento da quelli di sosta e di relazione, facendo perdere a questo luogo il suo ruolo di rilevanza. Ad oggi la piazza è spesso adibita a parcheggio ed è quasi sempre vuota, mentre la vita di relazione si svolge attorno ai servizi che sono stati realizzati lungo via Diego Angeli e nello stradone di via dei Crispolti, dove sono presenti i servizi previsti nel progetto, la chiesa di Santa Maria della Visitazione e alcuni esercizi commerciali negli isolati limitrofi, costruiti successivamente.
Questo complesso di edifici risponde ancora oggi, e molto meglio di tanti contemporanei insediamenti analoghi, con vigore e disciplina alle regole della buona architettura, fatta di aggregazione e non di direttrici spaziali. Risulta intrisa di un artigianato che, rinunciando a tecnologie costruttive futili, le conferisce valore aggiunto. Questo piccolo comprensorio, invece di contrapporsi alla disorganica avventura delle borgate, si proietta in un tempo ideale in opposizione polemica piuttosto nei confronti della città, che pure si trova lì a poche centinaia di metri.
Il progetto rappresenta inoltre una definitiva presa di distanza dal razionalismo italiano e dall'architettura organica, di cui pure facevano parte i progettisti. Il Tiburtino testimonia anche il generoso tentativo di declinare in termini architettonici e urbani le aspirazioni di quegli strati sociali che, grazie alla rinnovata dialettica democratica, si riaffacciano con una nuova dignità alla vita del Paese.
Con il passare degli anni però la mancanza di luoghi di ritrovo, la poca cura degli spazi pubblici, l’assenza di alcuni servizi primari e la difficoltosa fruibilità dei negozi non hanno permesso al quartiere di ottenere il successo sperato. L’esemplarità del quartiere infatti, realizzato in un clima di grandi aspettative tipico del dopoguerra, non è stata esente dalle critiche, anche da parte degli stessi progettisti. Nel testo “Il paese dei barocchi” del 1957, Quaroni rende esplicito come la distanza temporale abbia prodotto in lui anche una distanza critica: il quartiere romano gli appare “una cosa abbastanza modesta“ ritenendo di dire che “nella spinta verso la “città“ ci si è fermati al “paese“, nel voler dare un linguaggio italiano alle esperienze e agli insegnamenti dell'urbanistica svedese siamo arrivati a farli parlare addirittura in romanesco“ (L. Quaroni, 1957) .
Con questa realizzazione poi avviene anche l’esplicita accettazione del ritardo tecnologico italiano. Lo testimoniano la cura, ossessivamente manierista se non – appunto - barocca, dei particolari costruttivi in mattoni o in ferro battuto eseguiti con perizia artigianale, i tetti in tegole, l’estetica del frammentario e del pittoresco. Tutti questi elementi sono la manifestazione dello stesso atteggiamento populista messo in scena dalla contemporanea cinematografia neorealista, definizione che viene trasposta in architettura, unita alla consapevolezza di un ruolo sociale dell’architettura.

Info
  • Progetto: 1949 - 1949
  • Esecuzione: 1950 - 1956
  • Committente: IACP - Istituto Autonomo Case Popolari, INCIS - Istituto Nazionale Case Impiegati dello Stato
  • Proprietà: Proprietà pubblico-privata
Autori
Nome Cognome Ruolo Fase Progetto Archivio Architetti Url Profilo Autore Principale
Carlo Aymonino Collaboratore Progetto Visualizza Profilo https://www.iuav.it/ARCHIVIO-P/ARCHIVIO/collezioni/Aymonino--/index.htm NO
Carlo Chiarini Collaboratore Progetto Visualizza Profilo https://siusa.archivi.beniculturali.it/cgi-bin/pagina.pl?TipoPag=prodpersona&Chiave=31453&RicDimF=2&RicProgetto=architetti NO
Mario Fiorentino Progetto architettonico Progetto Visualizza Profilo https://www.treccani.it/enciclopedia/mario-fiorentino_(Dizionario-Biografico)/ NO
Federico Gorio Progetto architettonico Progetto Visualizza Profilo https://siusa.archivi.beniculturali.it/cgi-bin/siusa/pagina.pl?TipoPag=prodpersona&Chiave=33685 NO
Maurizio Lanza Progetto architettonico Progetto NO
Sergio Lenci Collaboratore Progetto Visualizza Profilo https://siusa.archivi.beniculturali.it/cgi-bin/siusa/pagina.pl?TipoPag=prodpersona&Chiave=34008&RicFrmRicSemplice=Lenci%20Sergio&RicVM=ricercasemplice&RicSez=produttori NO
Piero Maria Lugli Progetto architettonico Progetto Visualizza Profilo https://siusa.archivi.beniculturali.it/cgi-bin/siusa/pagina.pl?TipoPag=prodpersona&Chiave=32025&RicProgetto=architetti NO
Carlo Melograni Collaboratore Progetto NO
Gian Carlo Menichetti Collaboratore Progetto NO
Ludovico Quaroni Progetto architettonico Progetto https://siusa.archivi.beniculturali.it/cgi-bin/siusa/pagina.pl?TipoPag=comparc&Chiave=337631 NO
Ludovico Quaroni Coordinatore Progetto Visualizza Profilo https://siusa.archivi.beniculturali.it/cgi-bin/siusa/pagina.pl?TipoPag=prodpersona&Chiave=51865 SI
Mario Ridoldi Progetto architettonico Progetto Visualizza Profilo https://siusa.archivi.beniculturali.it/cgi-bin/siusa/pagina.pl?TipoPag=prodpersona&Chiave=32832 NO
Mario Ridolfi Coordinatore Progetto Visualizza Profilo https://siusa.archivi.beniculturali.it/cgi-bin/siusa/pagina.pl?TipoPag=prodpersona&Chiave=32832 SI
Giulio Rinaldi Progetto architettonico Progetto NO
Michele Valori Progetto architettonico Progetto Visualizza Profilo https://siusa.archivi.beniculturali.it/cgi-bin/siusa/pagina.pl?TipoPag=prodpersona&Chiave=31873 NO
  • Strutture: cemento armato
  • Materiale di facciata: intonaco, muratura in mattoni, blocchi di tufo
  • Coperture: a falde
  • Stato Strutture: Buono
  • Stato Materiale di facciata: Buono
  • Stato Coperture: Buono

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La ricerca neorealista in campo architettonico, a partire da una prima reazione al Movimento Moderno, è incentrata su una nuova razionalità del costruire che, nel tentativo di recuperare un discorso interrotto con la storia, guarda al passato per riscoprire le tecniche costruttive artigianali e ricreare le condizioni, l’ambiente, lo spazio architettonico, il modo di abitare dell’equilibrio della vita di borgo. Il progetto lascia quindi ben poco alle speranze di architetti, politici e intellettuali progressisti che intendono fare dell’intervento pubblico luogo necessario del controllo della crescita urbana e laboratorio della ricerca di un habitat evoluto e rispettabile.
Situato al km 7 di via Tiburtina, lontano dalla città costruita e al di fuori delle previsioni di Piano, il progetto del quartiere ha avuto inizio nel 1949, quando prende ufficialmente il via il programma edilizio dell'INA-Casa secondo il piano Fanfani (1948), che prevede l’edificazione di alloggi a basso costo sovvenzionati dallo Stato, finalizzata soprattutto al riequilibrio del mercato economico e dell’occupazione di un gran numero di persone nell’immediato dopoguerra. 
Questo insediamento è uno dei complessi più interessanti tra i tanti progettati secondo le indicazioni di questo ente. Vero laboratorio per il gruppo di diverse generazioni di architetti coinvolti nel progetto, il quartiere raccoglie gran parte delle ricerche sull'abitazione svolte da Mario Ridolfi presso il Centro nazionale delle Ricerche e esemplifica la proposta culturale veicolata dalla pubblicazione del Manuale dell'architetto (Usis-Cnr, 1946).
Anche i due fascicoli pubblicati dall'INA-Casa, che definiscono le principali linee guida e le caratteristiche generali necessarie per la progettazione e realizzazione degli insediamenti, poi declinate nei contesti locali, sono sintomatici dell’insofferenza di alcuni architetti come Zevi, per le forme dell’ortodossia razionalista, in Italia troppo spesso fascista, e della contrapposizione di altri architetti, ancora legati a queste ideologie. 
All’interno del dibattito che si sviluppa in quegli anni, il quartiere viene progettato da un gruppo di membri dell’APAO (l’Associazione per l’Architettura Organica fondata da Zevi) formato per lo più da giovani laureati (Carlo Aymonino, Carlo Chiarini, Mario Fiorentino, Federico Gorio, Maurizio Lanza, Sergio Lenci, Piero Maria Lugli, Carlo Melograni, Gian Carlo Menichetti e Michele Valori), guidati da Ridolfi, per la parte architettonica, e da Quaroni, per la parte urbanistica. Il gruppo ritiene di dover partecipare al piano di ricostruzione INA-Casa superando, così, l’opposizione di Bruno Zevi che esprime allo stesso tempo ammirazione e disapprovazione per questa serie di interventi. 
Nell'ambito romano, reduce dal ruolo di centro politico e ideologico del regime, privo di una reale esperienza del Movimento Moderno, prendono forma le aspirazioni ad una revisione della cultura architettonica in senso anti-razionalista. Nel complesso delle realizzazioni la rinuncia ad ogni valenza progressista produce un sobrio realismo architettonico e costruttivo. Nelle soluzioni dei professionisti romani il virtuosismo di Ridolfi, pur epurato da alcuni accenti manieristici e letterari, si sedimenta in un linguaggio semplice e corrente. 
Esclusa ogni innovazione poi, si evidenzia il dispositivo costruttivo tipico del Modernismo italiano: costruzione mista in muratura e cemento armato, definitivamente assimilata nel periodo dell’autarchia nel patrimonio genetico dell’architettura italiana del Novecento. La sperimentazione architettonica sul tema del quartiere si esprime esclusivamente nei progetti INA-Casa attraverso invenzioni formali planimetriche e tipologiche.  Il tentativo promosso dal Piano di far convivere la necessità dell’abitare con quella del costruire si è modellato nelle sue diverse applicazioni territoriali, senza costituirsi nei decenni successivi come paradigma della trasformazione della città.
L’iter progettuale degli architetti per il Tiburtino si sviluppa ricercando il naturale equilibrio nella comunità e nelle forme architettoniche del villaggio: l’idea è quella di ricreare un quartiere che sia un vero e proprio Villaggio del Tiburtino, che risponda in maniera forte al degrado ed allo squallore edilizio delle vicine borgate, rispettando e valorizzando le caratteristiche morfologiche del sito. 
Pensato senza alcun inquadramento urbanistico, il quartiere, per sfuggire al “degrado suburbano”, accetta il suo recinto e si fa paese, privilegiando la scala umana ed il valore dello spazio di relazione, proposti dalle realizzazioni scandinave di quegli anni, ma misurate nell'articolazione dei corpi sull'architettura “minore” dei borghi medievali dell’alto Lazio.
Questo progetto diventa quindi il terreno di confronto privilegiato del dibattito architettonico, in cui i progettisti tentano di coniugare una migliore qualità dell’abitare all'impianto urbano nella ricostruzione del Paese come ricostruzione della casa. E’ infatti una delle prime occasioni del dopoguerra di sperimentazione sulla casa popolare e sul pensiero della forma e della dimensione della residenza pubblica: indica una strategia per la costruzione della periferia come “paese” lontano dalla città, richiamante valori urbani, sebbene separato dal tessuto compatto. 
Per quanto riguarda la sistemazione planimetrica, gli edifici sembrano snodarsi, pur con qualche incertezza nelle sue matrici culturali, nello spazio senza seguire nessuno schema preconcetto, articolandosi invece lungo gli assi di penetrazione, in modo da ricreare la contiguità spaziale della città preindustriale e realizzare con la loro continuità slarghi, rientranze, convessità, che diventano familiari all'abitante. Gli architetti compongono gli spazi adatti all'uso quotidiano, secondo un sistema complesso di relazioni e gerarchie. 
Più che di fronte ad un progetto urbanistico fatto di grandi tracciati, di lunghe e piacevoli promenade alberate, ci si trova circondati da una anomala suggestione fatta da case umili, per il popolo, che hanno un’unica pretesa: fornire degli alloggi.  Le abitazioni sono in grado di sfruttare lo spazio disponibile per creare dei margini di consistente intesa con il contesto antropologico. I singoli edifici, pur essendo tasselli architettonici compiuti all'interno del complesso, non sono progettati come fatto in sé concluso, ma cercano di abbracciare gli altri soggetti della composizione urbana, fondendosi gli uni agli altri. 
A piccoli blocchi fluenti intorno a spazi liberi precisi ed arguti, si succedono le differenti case, alcune delle quali sfruttano gli esistenti dislivelli altimetrici senza apparente violenza. Si tratta di case disposte rispettando l’orientamento nord-sud e est-ovest, secondo una logica che spazia tra l’astratto e l’informale, che manifestano l’esigenza di esprimere la società, nata dalla crisi dell’eredità razionalista, a cui in modo manifesto si oppongono realizzando una composizione di edifici di differente valore architettonico. 
Ogni idea di ritmo planimetrico viene abbandonata e, nella varietà di fronti e nella successione di prospettive sempre varie, alla strada è affidato appunto il valore di regola unificante dei diversi edifici e il compito di disegnare spazi suggestivi, intimisti, definiti da fronti edilizi dove il lessico popolare, reinterpretato dai puntuali disegni di dettaglio di Ridolfi (dai particolari costruttivi alla scelta dei materiali, alla notevole cura artigianale della realizzazione), è assunto come linguaggio. Questo richiamo architettonico vernacolare, fatto di materiali poveri, è la chiave espressiva scelta per ricreare un’atmosfera domestica, da borgo spontaneo, del tutto lontana sia dalle esperienze europee contemporanee che dall'architettura fascista precedente. 
Il ruolo della strada come spazio pubblico è ancora più marcato grazie anche alla giustapposizione degli spazi verdi raccolti, quali connettori delle unità abitative e quinte sceniche dell’agglomerato. Lo spazio verde acquista infatti una certa valenza: da ruolo residuale diventa un elemento che delimita senza dividere lo spazio, anzi lo rende maggiormente coeso, assumendo il valore dei giardini e in alcuni casi degli orti urbani della città antica, dalla quale riprende persino la delimitazione con muretti bassi in blocchi di tufo e elementi in cotto. 
Tuttavia, si denota la predominanza del verde ad uso privato rispetto a quello pubblico, ad oggi non attrezzato e localizzato in maniera non uniforme rispetto a tutte le unità residenziali. Gli slarghi, le piazze, le vie carrabili, costituiscono gli spazi a scala di quartiere; i percorsi, gli orti, i ballatoi in quota, i passaggi coperti, le piazzole con sedute, sono gli spazi del vicinato. Ampi o minuti graticci, realizzati con elementi di laterizio, che interrompono le pareti intonacate, muri di recinzione in blocchi di tufo ed elementi laterizi, combinati in insolite geometrie, con copertine di embrici o di lastre di travertino, pensiline, tetti spioventi tradizionali in coppi alla romana, ballatoi, balconi in ferro battuto con ringhiere e cancelli dal disegno complesso sono tutti elementi dell’apparato scenografico che caratterizza il quartiere. 
I colori degli esterni degli edifici, oggi in parte alterati, erano basati su due o tre gradazioni di “terre romane”. Gli infissi delle abitazioni sono in abete con persiane alla romana, le ringhiere dei balconi e delle scale in ferro piatto e profilati normali. Le pareti delle scale sono foderate di mattoni, per assicurarne la maggior durata; le recinzioni esterne sono in tufo e mattoni a faccia vista, con copertine in travertino o in cemento. La pavimentazione stradale è in asfalto, mentre gli spazi interni sono misti, in cubetti di selce o lastre di travertino.
Il quartiere occupa una superficie totale di 8,8 ettari, con 771 alloggi per 4000 abitanti. Il progetto edilizio rinuncia alla scelta di un unico tipo edilizio. Le tipologie edilizie scelte per il progetto sono essenzialmente tre: case a torre di 7-8 piani, con 2, 3, 4 alloggi per scala, (progettate da Ridolfi); case in linea a 3-5 piani dette “case collettive” (progettate da Ridolfi, Fiorentino, Quaroni, Lugli, Valori, Melograni, Gorio, Aymonino, Chiarini, Lenci, Lanza e Menichetti) e case a schiera a 2-3 piani, che in alcuni casi sono raggiungibili da scale esterne e distribuiti da un ballatoio (progettate da Ridolfi). Questi edifici si prestano a molteplici variazioni, che rendono più complessa la loro tipizzazione in categorie precise. In realtà l’elemento di base è l’alloggio aggregato in linea con alcune interpolazioni e varianti. Vi sono poi quattro edifici commerciali realizzati da Ridolfi, collocati omogeneamente nell'agglomerato.
Il sistema costruttivo portante dei vari edifici è composto da un’equilibrata combinazione di elementi murari e di elementi in cemento armato, tutti realizzati prevalentemente in opera. Per quanto riguarda il ruolo strutturale degli elementi murari e degli elementi in cemento armato occorre distinguere tra case basse e case alte. Negli edifici di 2 o 3 piani la funzione portante è solitamente affidata a pareti di mattoni o blocchi lapidei realizzati in modo tradizionale, al cui controventamento contribuiscono in maniera innovativa i solai laterocementizi, con la conseguente possibilità di alleggerire le pareti non portanti. Questo modello costruttivo tradizionale è molto ben determinato all'epoca del Piano: delineato con sufficiente precisione nei suggerimenti emessi a più riprese dalla Gestione INA-Casa, definito compiutamente nel capitolato generale e più dettagliatamente nei capitolai speciali approntati dalle stazioni appaltanti, viene infine puntualmente applicato nelle realizzazioni.
Il sistema a muratura continua in blocchi regolari di tufo con ricorsi in mattoni, in cui il muro di spina condiziona la distribuzione dell’alloggio, determina una sequenza di stanze racchiuse nella scatola muraria con un piccolo sistema di disimpegni. La variazione tra alloggi con soggiorno e cucina su fronti opposti o sullo stesso fronte non porta a sostanziali differenze nell'organizzazione spaziale. Inoltre mutamenti dello spessore del corpo di fabbrica nello stesso edificio e la possibilità di aprire delle finestre su tre lati, a seguito di scarti e rotazioni, creano una serie di varianti dell’alloggio che generano indecisioni tipologiche più che variazioni. In generale l’andamento dell’aggregazione è definito da linee spezzate e articolato da slittamenti e rotazioni dei corpi di fabbrica, in cui i volumi delle scale rappresentano i fulcri.
Al centro della composizione, nell'isolato tra Via Tiburtina e Via dei Crispolti, vi è l’elemento a doppio T di Quaroni e Fiorentino, che Aymonino indica come “quello con maggiore coerenza nel passaggio di scala”. Il lungo corpo snodato è costituito dall'assemblaggio di più corpi edilizi aggregati in linea alti 4 piani, slittati leggermente o ruotati vistosamente in modo irregolare, e forma un insieme che chiude il lato della piazza interna dove si affacciano i soggiorni. I punti di cerniera sono risolti con scale triangolari che smistano gli alloggi sfalsati in altezza. 
L’attenzione dei progettisti è volta principalmente allo studio dell’impaginazione dei fronti edilizi in modo da riprodurre quella vitalità e spontaneità da opporre alle rigide geometrie del funzionalismo. La ricerca di variazioni è continua tramite l’inserimento di balconi, non sempre coerenti con la distribuzione dell’alloggio, e di logge di volta in volta esagonali, rettangolari o di altra foggia, che creano effetti volumetrici e chiaroscurali diversificati, mentre connettono corpi di fabbrica distinti. In questo edificio non manca inoltre l’interpolazione di alloggi duplex, accessibili da una breve rampa esterna al piano terra e da un breve ballatoio al terzo piano, connesso al vicino vano scala.
Dall'evocazione di un ideale borgo si distacca l’edificio di Quaroni su Via dei Crispolti. L’edificio, di 3 piani più piano terra con 4 alloggi per piano distribuiti a ballatoio, ha il prospetto su strada assonante con il resto del quartiere, con balconi e logge diversificate distinte da un fondo intonacato, ed uno interno che prefigura una delle tante palazzine romane, con logge allungate ed accesso ad androne adeguati alle aspettative di decoro e riconoscibilità di una medio borghesia. Si tratta di una scelta volutamente ambigua che sembra cogliere l’irripetibilità dell’esperienza del quartiere Tiburtino. La studiata casualità delle soluzioni accentua il carattere spontaneo; i dettagli di recinzioni, cancelli, ingressi, sono “un tentativo” di prolungare lo spazio domestico sin nella strada.
Lungo il fronte di Via Tiburtina, Ridolfi realizza degli edifici in cui gli alloggi al primo livello sono in continuità (case a schiera) e sono accessibili sia dal corpo scala, sia da piccoli giardini privati sul fronte strada, mentre il vano scala, che serve gli alloggi dei piani superiori aggregati in linea, è raggiungibile al secondo livello da scale esterne a due rampe. Si crea così una successione di brevi rampe di scale esterne al filo dell’edificio. 
Allineate lungo Via Luigi Cesena trovano posto le case collettive progettate da Michele Valori a 5 piani: queste presentano una disposizione articolata dei blocchi che permette la varietà dei punti di vista e la creazione di spazi pubblici, a piccola scala, capaci di suggerire la vitalità e la spontaneità del villaggio, uno degli obiettivi che il gruppo di Quaroni e Ridolfi si era prefissato.
Lungo Via Diego Angeli e Via Luigi Cesana vi sono delle case a ballatoio, realizzate da Ridolfi, che costituiscono la vera icona del Neorealismo architettonico: semplicemente indicate come schiere a 3 piani sovrapposti, con un alloggio per piano, presentano in realtà una tipologia composta. Gli alloggi al piano terra aggregati a schiera prendono luce da un patio. Gli alloggi al secondo piano sono distribuiti da un ballatoio, una sorta di strada sopraelevata, mentre quelli del terzo livello sono accessibili dal ballatoio con scale individuali. 
Gli edifici del settore ovest (via Diego Angeli) e del settore est (via Luigi Cesana) differiscono per l’adeguamento alle curve di livello del suolo più che per variazioni distributive degli alloggi. I primi si trovano su un terreno pianeggiante, i secondi su un terreno acclive, il cui andamento è assecondato da leggeri sfalsamenti degli alloggi, che tanto hanno contribuito alla codificazione dell’immagine evocativa di un paese. Questo differente posizionamento sul terreno mette in evidenza un altro aspetto: in via Diego Angeli i patii che ritagliano il ballatoio permettono un ingresso più riservato ai piani.
La stessa soluzione, proposta su via Cesena rende le abitazioni e il ballatoio elemento di continuità con la strada, spazio di gioco dei bambini, abitazioni più pubbliche che si adattano ad utilizzi alternativi arricchendo il contorno. Gli edifici di Ridolfi, sommessi e riservati nella loro dignità offrono al pari di un borgo di tempi lontani la possibilità di essere vissuti come quartiere, caratteristica che non si può attribuire ai limitrofi isolati. Anche questi edifici sono realizzati in muratura di tufo e ricorsi di mattoni, sempre intonacati esternamente, e contribuiscono a creare delle serrate maglie chiuse.
Le torri, alte 7 piani e posizionate ai margini del quartiere, costituiscono il perno ideale della planimetria fatta per il resto da case più basse, concentrando un alto numero di residenze in un unico edificio, e rappresentano un elemento di discontinuità ed eterogeneità proprie dell’impianto del quartiere. Inoltre ha più possibilità di affaccio panoramico e buon orientamento per tutti gli appartamenti: nello specifico le torri di Ridolfi hanno 3 alloggi per piano distribuiti da una scala, aggregati secondo una rotazione di 120°. Questi edifici sono realizzati con struttura in cemento armato e tamponatura in forati intonacati esteriormente.
Il quartiere è stato mal realizzato dalle imprese di costruzione. Il disegno della grande piazza centrale, localizzata in via Arbib, era stato immaginato con l’intento di definire un importante spazio pubblico all'interno dell’insediamento. Non è stata infatti rispettata la volontà dei progettisti di distinguere lo spazio di attraversamento da quelli di sosta e di relazione, facendo perdere a questo luogo il suo ruolo di rilevanza. Ad oggi la piazza è spesso adibita a parcheggio ed è quasi sempre vuota, mentre la vita di relazione si svolge attorno ai servizi che sono stati realizzati lungo via Diego Angeli e nello stradone di via dei Crispolti, dove sono presenti i servizi previsti nel progetto, la chiesa di Santa Maria della Visitazione e alcuni esercizi commerciali negli isolati limitrofi, costruiti successivamente. 
Questo complesso di edifici risponde ancora oggi, e molto meglio di tanti contemporanei insediamenti analoghi, con vigore e disciplina alle regole della buona architettura, fatta di aggregazione e non di direttrici spaziali. Risulta intrisa di un artigianato che, rinunciando a tecnologie costruttive futili, le conferisce valore aggiunto. Questo piccolo comprensorio, invece di contrapporsi alla disorganica avventura delle borgate, si proietta in un tempo ideale in opposizione polemica piuttosto nei confronti della città, che pure si trova lì a poche centinaia di metri. 
Il progetto rappresenta inoltre una definitiva presa di distanza dal razionalismo italiano e dall'architettura organica, di cui pure facevano parte i progettisti. Il Tiburtino testimonia anche il generoso tentativo di declinare in termini architettonici e urbani le aspirazioni di quegli strati sociali che, grazie alla rinnovata dialettica democratica, si riaffacciano con una nuova dignità alla vita del Paese.
Con il passare degli anni però la mancanza di luoghi di ritrovo, la poca cura degli spazi pubblici, l’assenza di alcuni servizi primari e la difficoltosa fruibilità dei negozi non hanno permesso al quartiere di ottenere il successo sperato. L’esemplarità del quartiere infatti, realizzato in un clima di grandi aspettative tipico del dopoguerra, non è stata esente dalle critiche, anche da parte degli stessi progettisti. Nel testo “Il paese dei barocchi” del 1957, Quaroni rende esplicito come la distanza temporale abbia prodotto in lui anche una distanza critica: il quartiere romano gli appare “una cosa abbastanza modesta“ ritenendo di dire che “nella spinta verso la “città“ ci si è fermati al “paese“, nel voler dare un linguaggio italiano alle esperienze e agli insegnamenti dell'urbanistica svedese siamo arrivati a farli parlare addirittura in romanesco“ (L. Quaroni, 1957) .
Con questa realizzazione poi avviene anche l’esplicita accettazione del ritardo tecnologico italiano. Lo testimoniano la cura, ossessivamente manierista se non – appunto - barocca, dei particolari costruttivi in mattoni o in ferro battuto eseguiti con perizia artigianale, i tetti in tegole, l’estetica del frammentario e del pittoresco. Tutti questi elementi sono la manifestazione dello stesso atteggiamento populista messo in scena dalla contemporanea cinematografia neorealista, definizione che viene trasposta in architettura, unita alla consapevolezza di un ruolo sociale dell’architettura.
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Note

Dati: - Popolazione insediata: 4000 abitanti - Superficie territoriale: 88000 mq - Superficie o volume utile edificati (Su) 11666 mq o mc - Superficie fondiaria: 6329 mq - Superficie coperta residenziale: 3122 mq - Superficie delle strade 4953 mq - Numero alloggi: 771 (4006 vani) - Superficie delle attività commerciali: 175 mq - Densità abitativa 4.54 ab/ha - Strumento urbanistico: Piano edilizia economica popolare (PEEP)

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Fondo Federico Gorio Federico Gorio Accademia Nazionale di San Luca, Roma Quartiere INA Casa Tiburtino a Roma Lotti A e C1 (494 vani)

Allegati
File Didascalia Credito Fotografico
Planimetria generale Planimetria generale
Pianta piano tipo edificio di Quaroni e Fiorentino Pianta piano tipo edificio di Quaroni e Fiorentino
Vista dall'alto Vista dall'alto
Vista esterna case a schiera di Ridolfi Vista esterna case a schiera di Ridolfi

Criteri
1. L’edificio o l’opera di architettura è citata in almeno tre studi storico-sistematici sull’architettura contemporanea di livello nazionale e/o internazionale.
2. L’edificio o l’opera di architettura è illustrata in almeno due riviste di architettura di livello nazionale e/o internazionale.
3. L’edificio o l’opera di architettura ha una riconosciuta importanza nel panorama dell’architettura nazionale, degli anni nei quali è stata costruita, anche in relazione ai contemporanei sviluppi sia del dibattito, sia della ricerca architettonica nazionale e internazionale,
4. L’edificio o l’opera di architettura riveste un ruolo significativo nell’ambito dell’evoluzione del tipo edilizio di pertinenza, ne offre un’interpretazione progressiva o sperimenta innovazioni di carattere distributivo e funzionale.
6. L’edificio o l’opera di architettura è stata progettata da una figura di rilievo nel panorama dell’architettura nazionale e/o internazionale.
7. L’edificio o l’opera di architettura si segnala per il particolare valore qualitativo all’interno del contesto urbano in cui è realizzata.
Sitografia ed altri contenuti online
Titolo Url
Quartiere INA Casa Tiburtino a Roma Visualizza
Quartiere INA Casa Tiburtino a Roma Lotti A e C1 (494 vani) Visualizza
Dizionario biografico degli Italiani - Ludovico Quaroni Visualizza
SAN Archivi degli Architetti - Sergio Lenci Visualizza
Artribune - Carlo Melograni Visualizza
Fondo Federico Gorio Visualizza
MAXXI Patrimonio - Mario Fiorentino Visualizza
SAN Archivi degli Architetti - Federico Gorio Visualizza
SAN Archivi degli Architetti - Mario Ridolfi Visualizza
Fondo Ridolfi-Frankl-Malagricci Visualizza
Dizionario biografico degli Italiani - Mario Ridolfi Visualizza
Enciclopedia Treccani - Mario Ridolfi Visualizza

Crediti Scheda
Enti di riferimento: PaBAAC - Direzione Regionale per il Lazio
Titolare della ricerca: Università degli studi di Roma "Sapienza"
Responsabile scientifico: Piero Ostilio Rossi


Scheda redatta da
creata il 31/12/2012
ultima modifica il 13/05/2024

Revisori:

Alberto Coppo 2021